Autore: BwBA_0kJ

Influencer, competenza e controllo: la Cina ridefinisce le regole

È notizia degli ultimi giorni che la Cina ha introdotto una normativa che potrebbe ridisegnare la professione degli influencer: chiunque intenda parlare di argomenti “seri”, come  medicina, finanza, diritto, educazione, politica, ecc, dovrà dimostrare di avere la preparazione adatta. In sostanza non basta avere tanti follower o essere bravi a intrattenere, ma se parli di temi che toccano la conoscenza specialistica, il contenuto deve venire da chi ha un titolo riconosciuto a farlo, almeno nel paese del dragone.

Cosa stabilisce la nuova regolamentazione

La norma, operativa da ottobre 2025, prevede che gli influencer che trattano di ambiti sensibili debbano provare formazione o qualifica nel settore in questione. 

Inoltre, sarà vietata la promozione ostentata del lusso (luxury flaunting), le piattaforme devono etichettare contenuti generati da AI, mentre la figura degli influencer sarà regolamentata sotto la legge pubblicitaria cinese. 

Questo rappresenta, per molti analisti, un cambio di paradigma: non ci saranno più solo influencer che intrattengono e promuovono, ma influencer competenti e preparati quando si trattano temi seri. 

Perché la Cina lo fa

Al centro, almeno secondo il governo cinese, ci sono due motivi principali:

  1. Combattere la disinformazione: nei settori medico, finanziario, educativo la diffusione di contenuti imprecisi è vista come rischio. 
  2. Controllo culturale e reputazionale: lo Stato vuole dare un segnale chiaro che il mondo digital-influencer non è uno “spazio libero” senza regole, specialmente quando ha grande impatto sociale. 

E in Italia/Europa? Potrebbe succedere anche da noi?

È interessante chiedersi se questa regolamentazione può essere solo un caso isolato alla Cina, o può dare anche ai governi occidentali spunti per riflettere su una regolamentazione più stringente di questa professione.

Attualmente, in Europa non esiste ancora una normativa che richiede agli influencer di avere un titolo accademico per parlare di finanza, medicina o diritto, ma esistono delle linee guida e codici di condotta. A questo scopo la European Commission ha pubblicato principi guida per il marketing degli influencer e la trasparenza degli annunci. In Italia, alcuni casi hanno mostrato i rischi della promozione non trasparente (vedi influencer che promuovono prodotti sanitari senza adeguata chiarezza). 

Quali scenari potrebbero verificarsi

Vediamo insieme ora cosa potrebbe succedere se fossero introdotte delle regolamentazioni nel nostro continente:

Ipotesi 1: regolamentazione soft

L’Europa potrebbe introdurre norme più rigide sulla trasparenza, sull’etichettatura delle sponsorizzazioni e sui requisiti minimi per chi tratta tematiche forti (finanza, salute), senza però richiedere una titolo di studio specifico o di alto livello, facendo in questo modo un “passo intermedio”.

Ipotesi 2: standard di competenza

Potrebbe emergere l’idea che, se un influencer parla di finanza o medicina, debba essere “certificato” o affiliato a professionisti qualificati (es: collabora con un medico, un commercialista). Non necessariamente un titolo di studio specifico, ma competenza dimostrabile.

Ipotesi 3: aspirazione alla Cina

In uno scenario più radicale, potrebbe venir richiesto che chi ha molti follower e tratta temi sensibili abbia un titolo o una qualifica verificata, perciò simile al modello cinese. Probabile poco realistico in Italia nel breve, ma non da escludere come “modello di riferimento”, anche se in questo caso si dovrebbe capire come conciliare questo approccio con la libertà di parola e opinione.

Vantaggi e criticità di un approccio di competenza

I vantaggi, nemmeno a dirlo, sicuramente riguarderebbero una maggiore affidabilità del contenuto, in modo che il pubblico possa fidarsi di chi parla e divulga, e questo dovrebbe portare a una riduzione della disinformazione, soprattutto in settori delicati e/o polarizzati. Inoltre, e non è poca cosa, avremmo una migliore reputazione del “lavoro influencer” come professione.

Ma anche l’altra faccia della medaglia, quella delle eventuali criticità non è da sottovalutare. Infatti il solo rischio di “barriere all’ingresso” potrebbero limitare la creatività e la spontaneità di chi crea un contenuto, oltre al dover individuare un metodo univoco per capire come stabilire chi è “preparato”. E non basterebbero sicuramente le sole certificazioni, titoli o collaborazioni.

Inoltre, e anche questa evenienza non è di poco conto, potremmo avere una  possibile sovrapposizione tra “influencer” e “esperto professionale”, cambiando la prospettiva delle persone verso la diffusione dei contenuti.

Inoltre non dobbiamo scordarci che In Italia e in Europa, l’equilibrio tra libertà di espressione, creatività digitale e protezione del pubblico è più delicato, perché il contesto istituzionale è diverso.

Perché conviene al settore “ influencer & marketing” tenere d’occhio questa trasformazione?

Se analizziamo dal mero punto di vista delle opportunità, l’essere preparati in un determinato settore potrebbe portare le agenzie e i brand a prepararsi per un futuro più regolamentato, in modo da non essere impreparati per un eventuale normativa più stringente, e ottenere un vantaggio competitivo.

Dal punto di vista degli influencer e creator, capire che “essere competenti” può diventare un criterio di differenziazione, non basato soltanto su “tanti follower”, ma “autorevolezza nel tema”, sicuramente creerà un engagement più consapevole meno polarizzante. 

Per il pubblico/consumatore: si alzerebbe l’asticella della credibilità dei contenuti. Infatti il pubblico chiede sempre più “chi mi parla?” e “con quale competenza?” con un eventuale normativa questa domanda avrebbe una risposta. 

Per i regolatori europei, o nazionali, questo è un laboratorio interessante per studiare come garantire equilibrio tra libertà digitale e protezione dei cittadini. La Cina mostra un modello rigido, ma in futuro l’Europa potrebbe scegliere una via più conciliante o ibrida.

La recente regolamentazione degli influencer in Cina introduce qualcosa di nuovo, cioè la competenza certificata come prerequisito per chi comunica su temi importanti. Per l’Italia e l’Europa, non è detto che verrà preso lo stesso percorso, ma il segnale è comunque forte. Con il mondo digitale che evolve, l’“influencer” non è più solo “creatore di contenuti”, ma può diventare anche “disseminatore di conoscenza”, con responsabilità ulteriori.

In questo contesto, i professionisti del marketing, i creator e i brand dovrebbero iniziare a porsi domande: come posso dimostrare competenza? Come posso collaborare in modo trasparente e credibile? E come si evolverà la regolamentazione?

Nel panorama italiano, le opportunità sono ancora ampie: maggiore autorevolezza può diventare un vantaggio competitivo, anche se si dovrebbe investire sulla fiducia e sulla responsabilità degli haters o di chi pubblica contenuti falsi. In definitiva la Cina ci offre un “modello estremo”, un laboratorio, grazie al quale possiamo guardare in casa nostra e chiederci se siamo pronti al salto successivo, e se sì, in che modo. A questa domanda, e per ogni tua necessità, possiamo rispondere noi di yes -web, che da anni affianchiamo le aziende e i professionisti per aiutarli a fare la scelta giusta e coerente.

Bolla .com: cosa fu, come avvenne, perché esplose

Alla fine degli anni ’90, Internet stava esplodendo e presto comparve la narrativa che qualsiasi attività sul web potrà crescere all’infinito. Da subito investitori, startup e anche pubblico comune iniziano a puntare tutto su aziende “.com”. Il semplice fatto di avere “Internet” o “web” nel nome bastava spesso a raccogliere finanziamenti, anche ingenti, e questa allucinazione formò un paradigma mentale: crescita a tutti i costi, anche senza utili, anche senza modelli sostenibili, bastava essere nel web. Il mercato iniziò a tollerare business che bruciavano capitali perché l’aspettativa era che, prima o poi, il volume di affari futuri avrebbe compensato.

Le valutazioni delle aziende tecnologiche salirono rapidamente a livelli stratosferici, spesso senza che ci fossero utili reali o flussi di cassa convincenti.

Gli investimenti di venture capital piovevano, facendo nascere progetti simili, alcuni ridondanti, mentre le aspettative di crescita future (mercato di massa, pubblicità, e-commerce) alimentavano l’entusiasmo collettivo, mentre le banche e gli istituzionali favorivano l’IPO delle società “Internet”, che diventavano sempre più visibili al grande pubblico, complice la rapida diffusione di internet in case e istituzioni.

Verso il 2000 il mercato era saturo di ottimismo, ma presto le debolezze strutturali si fecero sentire; infatti, come si temeva, molte aziende non avevano modello di ricavi sostenibile, e quando i flussi di capitali cominciarono a rallentare (VC più cauti, costo del denaro che saliva), le aziende senza fondamenta cominciarono ad avere problemi. Alcune società fallirono, altre si deprezzarono drasticamente, e più in generale il mercato tech subì una battuta d’arresto, con l’indice Nasdaq, che aveva scontato gran parte dell’entusiasmo, che perse gran parte del suo valore.

In sintesi l’espansione era molto più veloce del consolidamento, e l’ottimismo senza garanzie reali fu infine punito.

Le analogie tra la bolla .com e l’attuale “bolla AI”

Oggi alcuni analisti guardano all’onda di investimenti sull’intelligenza artificiale con diffidenza, ricordandosi di ciò che successe meno di trent’anni fa ed evidenziandone le  naturali somiglianze. Ma è proprio così?

La narrazione potente e magnetica, proprio come alla fine degli anni ’90, è molto simile. Allora si parlava di come internet cambierà tutto, e anche oggi si dice che l’AI trasformerà ogni industria. Le narrazioni, lo abbiamo imparato, alimentano la fiducia, e fanno sì che progetti ancora immaturi ottengano attenzione e capitale. Oggi come allora la scalata degli investimenti e valutazioni generose, portano le startup AI a ricevere miliardi, spesso con metriche finanziarie che non sono ancora solide. Il settore è considerato sicuro, molte aziende puntano sul futuro piuttosto che sui profitti reali, e anche se alcuni analisti sostengono che l’attuale bolla AI sia potenzialmente molto più grande di quella .com, si continua a investire. 

Ma attenzione, non tutti i parallelismi sono perfetti. Ci sono differenze strutturali che rendono la possibile bolla AI un fenomeno simile ma con caratteristiche nuove, e soprattutto incoraggianti. La prima differenza è sicuramente la migliore base di capitale. In molti casi, i giganti tech stanno investendo parte del loro cash flow (non solo capitale esterno) per alimentare l’AI, il che rende l’onda meno dipendente dal capitale esterno ad alto rischio. Inoltre l’AI, ne siamo consapevoli, beneficia di miglioramenti costanti nei chip, nell’efficienza, nelle architetture, nella ricerca di una tecnologia sempre più potente e compatta, nella creazione di hardware e software sempre più integrati, il che dà valore intrinseco agli investimenti, anche se l’adozione è lenta. 

Non scordiamoci il valore dell’esperienza. Dopo il 2000 ci si accorse troppo tardi che tutto era sopravvalutato. Oggi, memori di quella bolla, c’è più consapevolezza, più strumenti finanziari sofisticati, più regolamentazioni, che possono intervenire in caso di problemi o di un mercato troppo instabile. Se andiamo più a fondo possiamo anche notare che alcune aziende AI non sono modelli sperimentali, ma hanno già linee di business consolidate e che già lavorano e creano business. È altresì vero che la concentrazione e la dipendenza dalle grandi aziende rende questo gigante completamente interconnesso con queste, perciò ogni rallentamento di queste (Microsoft, Nvidia, Google, Meta…), potrebbe portare a un effetto domino forte e incontrollabile.  

In tutto questo discorso dobbiamo considerare un altro elemento importante. Per quanto le tecnologie AI siano sempre più presenti in ogni ambito della nostra vita, nessuno, al momento, è ancora riuscito a sfruttare il loro reale potenziale. In teoria chiunque abbia una giusta intuizione potrebbe  rivoluzionare l’idea di utilizzo di questa tecnologia, e non necessariamente deve essere un’azienda preparata o già presente nel panorama tech. Lo sappiamo, il futuro del web, dei suoi servizi e il ventaglio delle possibilità che questo mondo offre, è sempre enorme, potenzialmente infinito e in rapida evoluzione. Noi di yes-web cerchiamo di analizzarlo, farne una sintesi e proporvi ogni giorno le novità e le possibilità per il vostro business o le vostre idee. 

Chiusure online: quando la libertà incontra la legge

Negli ultimi mesi abbiamo visto sempre più casi di pagine social o di siti web che sono balzati agli onori della cronaca per comportamenti che hanno violato la legge. Questi, oltre a essere stati resi improvvisamente inaccessibili, saranno oggetto di un procedimento giudiziario. Per chi lavora con il digitale, come per chi ha investito tempo ed energie nella costruzione di una community, non si tratta mai di un dettaglio. È un colpo alla visibilità, alla reputazione e spesso anche al fatturato. È successo con la pagina Facebook di Mia Moglie, così come con il sito Phiga. Dietro questi episodi di mancanza di oggettificazione della donna, si nasconde una questione molto più grande: che cosa è ancora corretto fare online e quali sono i limiti da rispettare?

La libertà di espressione è un diritto fondamentale riconosciuto a livello costituzionale dall’articolo 21, e dalle leggi internazionali, eppure, nel mondo digitale, questo diritto incontra barriere nuove e meno visibili, cioè le regole imposte dalle piattaforme private. Facebook, Instagram, Google o TikTok non sono spazi neutri, ma ecosistemi regolati da policy interne che l’utente accetta al momento dell’iscrizione. Così, una chiusura può avvenire non solo quando si viola la legge, ma anche quando un contenuto non è conforme a parametri stabiliti unilateralmente da un’azienda, ma anche che rimanga visibile nonostante le diverse segnalazioni, creando un senso di incertezza e confusione.

È qui che il digitale incontra il diritto. Non parliamo più solo di linee guida di una piattaforma, ma di normative europee che impongono nuovi standard a chi crea e a chi ospita contenuti online. Il GDPR, il regolamento europeo sulla protezione dei dati, ha segnato una svolta epocale: grazie a questo regolamento i dati degli utenti non sono più un bene sacrificabile o vendibile, ma un diritto da tutelare a tutti gli effetti e, chi raccoglie, conserva o utilizza informazioni personali è chiamato a garantire trasparenza, consenso consapevole e proporzionalità nell’uso.

Accanto al GDPR troviamo il Digital Services Act (DSA), che ha introdotto un ulteriore livello di responsabilità. Questa non riguarda più solo la privacy, ma la gestione complessiva dei contenuti digitali. Le piattaforme non possono più limitarsi a chiudere pagine o siti in modo automatico, ma devono fornire motivazioni chiare, permettere ricorsi, garantire procedure trasparenti. Allo stesso tempo, gli utenti sono chiamati a una maggiore consapevolezza e attenzione; infatti, ora, pubblicare contenuti diffamatori, discriminatori o scorretti non è più solo una “violazione del regolamento interno”, ma può avere diverse conseguenze legali, anche penali.

In questo scenario, la chiusura di una pagina o di un sito non è più un episodio isolato, ma un campanello d’allarme. Ci ricorda che il web non è uno spazio senza legge, e che la vera forza di chi comunica online sta nel saper unire libertà e responsabilità. Un equilibrio fragile, certo, ma indispensabile per costruire un futuro digitale più giusto e sostenibile.

Questa nuova cornice normativa non è un ostacolo, ma un invito a cambiare prospettiva. Infatti, per anni il web è stato percepito come una zona franca, quasi un far west digitale dove tutto era possibile. Oggi non è più così. Ogni parola, ogni immagine, ogni scelta comunicativa lascia una traccia e si colloca dentro un contesto fatto di diritti e responsabilità.

Allora la domanda diventa inevitabile: come comunicare online in modo corretto, efficace e sicuro? La risposta, naturalmente, non sta nel rinunciare a esprimersi, ma nel farlo con maggiore attenzione, evitando di condividere qualunque contenuto, verificando le fonti, usando un linguaggio rispettoso, garantire la protezione dei dati dei clienti, costruire community basate sul dialogo e non sul conflitto.

Per un’agenzia come Yes-Web, che lavora ogni giorno con soluzioni digitali, questo è il terreno su cui si gioca la vera partita: aiutare imprese, professionisti e associazioni a crescere online non solo con creatività e strategia, ma anche con piena conformità alle regole. Perché nel 2025 l’innovazione digitale non è solo questione di algoritmi o di social media, ma di fiducia. E la fiducia si conquista rispettando le persone, i loro diritti e il quadro normativo che li tutela.

Answer Engine Optimization: il nuovo SEO nell’era dell’Intelligenza Artificiale

Per anni, chi aveva un sito web si preoccupava soprattutto di una cosa, la più importante e quella per cui molti clienti continuano a chiedere spiegazioni e rassicurazioni, farsi trovare su Google. Qualche tempo fa l’operazione era abbastanza semplice, bastava lavorare sulle parole chiave, scrivere testi ottimizzati, curare la velocità di caricamento, aggiornare costantemente il sito, creare traffico, e c’era una buona possibilità di comparire tra i primi risultati.

Oggi il panorama sta cambiando velocemente. Sempre più persone non digitano più una ricerca, ma fanno una domanda diretta a un’Intelligenza Artificiale. Che si tratti di ChatGPT, Microsoft Copilot, Google Gemini o Perplexity, la logica è la stessa: l’utente riceve una risposta immediata, soddisfacente, senza neppure aprire una pagina web, perciò più velocemente. Questo significa che le tradizionali tecniche di SEO non bastano più. Dalla spinta data dalle AI nasce l’AEO, acronimo di Answer Engine Optimization, un approccio nuovo di ottimizzazione che permette di fare citare il tuo contenuto alle AI, come fonte autorevole nelle loro risposte.

Perché l’AEO è così importante?

Immagina di avere un ristorante e che un utente chieda a un’IA: “dove posso mangiare i migliori arrosticini a Pescara?”. L’assistente cercherà fonti online, le riassumerà e ne estrarrà una risposta pronta. Se il tuo sito è strutturato bene, aggiornato e credibile, potresti essere proprio tu a essere citato, magari anche con una piccola descrizione del posto o della tua tipicità. Il vantaggio è evidente, ottieni visibilità senza passare dalla classica classifica di Google. E in un momento in cui il traffico organico dai motori di ricerca sta calando, essere la fonte per un assistente AI può fare la differenza, e sicuramente la farà in un futuro prossimo.

Ma come funziona in pratica l’AEO? Questa nuova tecnica si basa su un concetto semplice ma strategico, quello di scrivere contenuti che rispondano in modo chiaro e completo alle domande reali delle persone, strutturandoli in modo che siano facilmente interpretati dalle AI.

Il primo passo, naturalmente, è conoscere le domande, non basta immaginarle, ma bisogna intercettarle nei commenti sui social, nei messaggi ricevuti dai clienti, nelle ricerche frequenti su Google o con strumenti che analizzano le query più comuni. Una volta individuate, queste, diventeranno il cuore dei tuoi articoli, dei tuoi post, delle tue vetrine digitali o delle tue campagne di web marketing, che andranno scritte in un formato domanda e risposta: si inizia con una spiegazione breve e diretta, per dare subito il valore che l’utente cerca, e poi si amplia con dettagli, esempi, casi reali. La freschezza dei contenuti è un altro fattore decisivo. Infatti, un testo di due anni fa, anche se ottimo, rischia di essere scavalcato da articoli più recenti. Aggiornare regolarmente ciò che hai già pubblicato, aggiungendo dati nuovi, modifiche normative, trend del settore, è un segnale di affidabilità sia per i lettori che per le AI.

L’autorevolezza, neanche a dirlo, gioca un ruolo chiave: fonti ufficiali, link a studi attendibili, dati verificati, ogni volta che un contenuto appare solido e documentato, aumenta la probabilità che venga selezionato come fonte. Anche il modo in cui si presenta l’informazione conta: paragrafi brevi, frasi chiare, elenchi per evidenziare concetti importanti, non sono solo una questione di leggibilità per l’utente umano, ma di interpretazione corretta da parte dei sistemi di risposta. Infine, non bisogna dimenticare un aspetto tecnico ma accessibile, cioè l’uso di dati strutturati, come quelli previsti da schema.org. Ad esempio, inserire una sezione FAQ in fondo a un articolo non solo aiuta chi legge, ma rende più facile alle AI estrarre risposte dirette.

Vediamo un esempio pratico: poniamo che Yes-Web voglia scrivere un articolo per il blog su come aumentare le vendite online in un piccolo negozio. Invece di un testo generico, la struttura sarà questa:

  • Il titolo sarà una domanda chiara e concisa
  • I primi paragrafi daranno subito la risposta essenziale.
  • A seguire avremo un approfondimento con strategie concrete e casi reali.
  • Si citeranno sempre fonti e dati ufficiali per dare credibilità.
  • L’articolo si chiuderà con una breve sezione di domande frequenti, ideali e ottimizzate per i motori di risposta AI.

Questo approccio aumenta le probabilità che, quando un utente chiede a un’IA come far crescere un e-commerce locale, la risposta contenga proprio le informazioni di Yes-Web.

L’AEO non sostituisce il SEO, lo completa

È importante chiarirlo, anche in maniera decisa, non si tratta di abbandonare la SEO tradizionale, le ricerche classiche esistono ancora e resteranno fondamentali sempre. L’AEO è un’evoluzione che si aggiunge agli strumenti di visibilità online e apre un nuovo canale di contatto con il pubblico. Chi inizia ora avrà un vantaggio enorme, in quanto la concorrenza è ancora ridotta e le opportunità di emergere come fonte autorevole sono più alte.

Il futuro della visibilità online, perciò, non si giocherà solo sulle pagine dei motori di ricerca, ma anche dentro le risposte generate dall’Intelligenza Artificiale. Prepararsi oggi significa non solo adattarsi a un nuovo modo di cercare informazioni, ma posizionarsi come punto di riferimento in un ecosistema digitale in piena trasformazione.

Noi di Yes-Web crediamo che innovare sia la chiave per crescere. E l’Answer Engine Optimization è uno di quei terreni su cui muoversi subito, prima che diventi una corsa affollata.

Accessibilità Digitale: tra obbligo normativo e leva strategica per l’innovazione

C’è una parola che, fino a qualche anno fa, sembrava riguardare solo il mondo delle disabilità, dell’inclusione o della pubblica amministrazione, cioè accessibilità. Oggi, invece, l’accessibilità digitale si impone come una frontiera cruciale dell’innovazione, un tema che non può più essere ignorato da chiunque abbia usufruito almeno una volta nella vita di un servizio online, un sito web, un’app, o gestisca una piattaforma digitale. Non si tratta soltanto di una norma da rispettare, ricordiamo che la scadenza è stata il 28 giugno 2025, ma si tratta soprattutto di una scelta strategica, che può migliorare l’esperienza utente, la reputazione dell’azienda e persino i risultati di business.

La Dichiarazione di Accessibilità: più di un documento

La normativa prevede che ogni servizio digitale offerto da enti pubblici o soggetti equiparati sia accompagnato dalla Dichiarazione di Accessibilità, un documento ufficiale che attesta il livello di conformità del sito o dell’app rispetto ai requisiti tecnici definiti nelle linee guida WCAG (Web Content Accessibility Guidelines). Ma attenzione, questo non è un semplice adempimento burocratico, ma l’occasione per fare un punto serio sullo stato del proprio ecosistema digitale, e per chiedersi: la nostra tecnologia è davvero pensata per tutti?

L’accessibilità come acceleratore di qualità

Spesso si tende a pensare all’accessibilità come a un limite, una serie di vincoli tecnici o grafici che ostacolano la creatività. In realtà non è proprio così e, come ogni disputa, la verità sta nel mezzo. Infatti se pensiamo al richiamo che può avere un sito graficamente apprezzabile, è tanto vero che più un’interfaccia è accessibile, più è semplice da usare, ma anche più chiara, più fluida e più veloce nel caricamento. Un servizio pensato in questo senso, riduce il rumore, elimina gli ostacoli di navigazione, e soprattutto mette l’utente al centro, e questo vale per tutti, non solo per chi ha disabilità certificate. Implementare le linee guida WCAG, perché ad esempio, migliora la SEO, rafforza la struttura semantica delle pagine e ne facilita l’indicizzazione. Tutto questo si traduce nella riduzione del tasso di abbandono, aumentando la permanenza sul sito, facendo perciò aumentare il tasso di conversione. L’accessibilità coincide spesso con una migliore esperienza utente.

L’effetto moltiplicatore dell’accessibilità

Molte soluzioni nate per l’accessibilità sono diventate utili per un pubblico molto più ampio. Pensiamo ai sottotitoli automatici nei video, nati per le persone sorde, oggi sono fondamentali anche in ambienti rumorosi, in luoghi pubblici o semplicemente per chi vuole guardare un contenuto senza disturbare. Lo stesso vale per i contrasti ottimizzati, i font leggibili, la navigazione da tastiera, i comandi vocali o gestuali. L’inclusione, quando è fatta bene, non esclude mai, ma amplia. È un miglioramento invisibile, potente, dato per scontato ormai, ma ci tocca a tutti.

Anche il team lavora meglio

Naturalmente i benefici dell’accessibilità non ricadono solo sugli utenti, ma anche i team di programmatori e le web agency beneficiano di strumenti più accessibili, leggeri e razionalizzati. Software gestionali inclusivi, interfacce pulite, piattaforme semplificate aiutano a lavorare meglio, riducono lo stress digitale e rendono la tecnologia più umana e più efficace. L’accessibilità, insomma, non è solo una questione esterna, ma anche un investimento culturale interno, un segnale di attenzione che genera valore a più livelli.

Una scadenza che diventa opportunità

Il 28 giugno 2025 non è solo una data da cerchiare in rosso sul calendario. È un’opportunità concreta per ripensare la propria presenza digitale. Adeguarsi alle normative sull’accessibilità non è solo fare il minimo per non prendere la multa, ma vuol dire abbracciare un paradigma nuovo, quello di un web che funziona meglio, democratico e sempre più accessibile a tutti, un web dove il design è al servizio della chiarezza, dove il contenuto è pensato per essere trovato, letto, capito.

In un mondo digitale dove la velocità e la superficialità spesso dominano, scegliere l’accessibilità, rivolgendosi a un’agenzia preparata e competente come yes-web, è un atto radicale di cura, empatia e serietà.